Cassazione 10791/2014

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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con atto di citazione notificato il 20.12.1990, P.R. D., in qualità di procuratore di H.G., conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma il Ministero del tesoro, chiedendone la condanna al pagamento dell'indennizzo per i beni espropriati dal Governo di Libia nel 1970: si trattava di un terreno edificabile situato a (OMISSIS), intestato ad un fiduciario, tale Z.L., ma acquistato dall' H. nel 1958.
Con separato atto di citazione notificato in pari data, P. R.D., in proprio, chiedeva l'indennizzo per la perdita di attrezzature edili, depositate sul terreno dell' H., e anch'esse oggetto di confisca. Si costituiva in giudizio il Ministero, contestando il fondamento della domanda, di cui chiedeva il rigetto.
2. Avverso la sentenza di primo grado, del 2003, che previa riunione aveva rigettato entrambe le domande, P.R.D. proponeva appello deducendo l'errata trascuranza del giudice riguardo a dichiarazioni giurate, sulla prova della proprietà.
Con sentenza depositata il 4.5.2007, la Corte d'appello di Roma rigettava il gravame, per non avere l'appellante provato la proprietà dei terreni e delle attrezzature: constatando che l'attività istruttoria della parte attrice era consistita nella sola produzione di dichiarazioni giurate provenienti da terzi, non ne riteneva l'efficacia probatoria in giudizio delle proprietà, rilevando, riguardo alla domanda per conto di H., che il pactum fiduciae in virtù del quale il terzo si sarebbe reso intestatario solo fittizio dei beni, non rivestiva forma scritta, nè la prova dell'intestazione fiduciaria poteva essere resa attraverso dichiarazioni confessorie, senza di che sarebbe stato necessario un ritrasferimento del bene dal fiduciario al fiduciante. Anche a voler configurare una simulazione, nel senso di una interposizione fittizia di persona, mancava sia l'atto di acquisto dell'immobile nel 1958, sia la controdichiarazione delle parti. A ciò dovevano aggiungersi lati oscuri della vicenda, come la richiesta di indennizzo avanzata nel 1972 dalla precedente proprietaria, incompatibile con l'intestazione allo Z., come la minore età di H. al momento dell'acquisto, che rendeva impossibile il compimento di negozi aventi ad oggetto immobili. Quanto alla domanda di P. R. in proprio, a parte l'inefficacia probatoria delle dichiarazioni di terzi, nell'istanza in sede amministrativa l'interessato aveva dichiarato appartenere i beni ad una sua società.
3. Ricorre per cassazione P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., affidandosi a sei motivi, illustrati da memoria, al cui accoglimento si oppone con controricorso il Ministero dell'economia e delle finanze, succeduto al Ministero del tesoro.


MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 26 gennaio 1980, n. 16, art. 1, comma 1; L. 29 gennaio 1994, n. 981, comma 3, violazione dell'art. 3 Cost., illegittimità costituzionale per disparità di trattamento, irragionevolezza e violazione de principi di imparzialità, efficienza e buon andamento, censura la sentenza impugnata per aver escluso che la facilitazione probatoria accordata ai proprietari dei beni perduti nelle ex colonie, mediante dichiarazioni giurate, possa applicarsi ai giudizi per il conseguimento degli indennizzi, restando valida solo in sede amministrativa. Con il secondo motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 29 gennaio 1994, n. 98, art. 1, comma 3 e D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 47, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che le dichiarazioni giurate abbiano valore solo in sede amministrativa, in assenza di una norma che espressamente attribuisca loro valenza in sede processuale, mentre tale norma è proprio quella che il giudice ha restrittivamente riferito ai soli procedimenti amministrativi.
Con il terzo motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 29 gennaio 1994, n. 98, art. 1, comma 3, sotto ulteriore profilo; violazione e falsa applicazione dell'art. 1414 ss. c.c., censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto che la prova del negozio dissimulato era costituita dalla dichiarazione scritta unilaterale dell'intestatario Z..
Con il quarto motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2721, 2724 e 2725; violazione e falsa applicazione degli 115 e 116 c.p.c.; difetto di motivazione in ordine a un punto decisivo, censura la sentenza impugnata per non aver ritenuto che, a fronte della dichiarazione unilaterale dell'intestatario fittizio, costituente principio di prova scritta, le dichiarazioni giurate assumessero rilievo probatorio, anche per l'impossibilità determinata dalle contingenze politiche e storiche, della Libia negli anni '70, di procurarsi prove documentali.
Con il quinto motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione e falsa applicazione della L. 29 gennaio 1994, n. 98, art. 1, comma 3; difetto di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver escluso che la facilitazione probatoria accordata ai proprietari dei beni perduti nelle ex colonie, mediante dichiarazioni giurate, possa applicarsi ai giudizi per il conseguimento degli indennizzi, in particolare riguardo a beni mobili, basando la propria convinzione dell'alienità delle attrezzature su un solo documento non significativo.
Con il sesto motivo di ricorso, P.R.D., in proprio e in qualità di procuratore di H.G., denunciando violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5 sotto ulteriore profilo, censura la sentenza impugnata per non aver tenuto conto che nessuno, a parte P.R. ed H., ha avanzato pretese sui beni o richiesto indennizzi, essendo al contrario tutti concordi sulla titolarità del terreno da parte di H. e dei macchinari a P.R..
2.1. I primi due motivi, stante la connessione (efficacia probatoria della dichiarazione giurata) vanno affrontati congiuntamente. Essi sono infondati. La Corte d'appello di Roma ha escluso che le dichiarazioni giurate possano costituire prova in giudizio, essendone limitata la rilevanza ai soli fini dell'istruttoria ministeriale per il riconoscimento e la liquidazione dell'indennizzo, aggiungendo ancora che la stessa può costituire un indizio atto a concorrere alla formazione del convincimento del giudice. L'interpretazione prevista dalla L 20 gennaio 1994, n. 98, art. 1, comma 3, appare corretta, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte (Cass. 11.9.2009, n. 19687).
Dalla lettura della norma, che va interpretata, ai sensi dell'art. 12 preleggi, innanzitutto in base al "senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse", emerge che nessuna delle espressioni utilizzate può far ritenere che si sia voluto attribuire alla dichiarazione della parte il valore di prova legale o semplicemente di prova valida a favore del dichiarante nell'ambito del giudizio civile o comunque in un contesto estraneo alla procedura amministrativa, utile alla fruizione del beneficio previsto dalla medesima legge per i beni perduti da cittadini e imprese italiane in territori già soggetti alla sovranità italiana.
La norma infatti recita: "I soggetti ... che non possano produrre gli atti dimostrativi della proprietà, per mancata corrispondenza da parte dell'autorità dello Stato nel cui territorio le proprietà stesse erano situate, sono autorizzati a corredare la domanda con una dichiarazione giurata ...". L'espressione "sono autorizzati", in aggiunta del rilievo (risolutivo) dell'assenza di qualsiasi elemento che faccia ritenere per detta dichiarazione un'efficacia esterna al procedimento amministrativo per il quale la stessa veniva formata, convince del valore assolutamente limitato della previsione. Il comma in esame si conclude inoltre con la formula: "La dichiarazione giurata degli interessati di cui al presente comma, resa in presenza di elementi precisi e concordanti, deve essere asseverata da conformi attestazioni di congruità da parte dei competenti uffici dell'amministrazione dello Stato". Anche in sede amministrativa, dunque, la dichiarazione giurata è sottoposta ad un vaglio di attendibilità, il che esclude, a maggior ragione, che la "facilitazione probatoria" che il ricorrente pretende in sede processuale, possa andare al di là del mero elemento indiziario da vagliare nel complessi delle risultanze probatorie.
Anche a voler sottoporre la disposizione in esame all'ulteriore criterio interpretativo indicato dall'art. 12 preleggi, riguardo all'intenzione del legislatore, non vi sono elementi per sostenere che il legislatore intendesse offrire una posizione di favore ai soggetti vittime delle vicende nelle ex colonie, tale da rendere la dichiarazione giurata prova legale nell'ambito del processo o da conferire comunque alla stessa un valore probatorio a favore della parte dichiarante, sovvertendo i principi generali che regolano la prova e l'indifferenza a fini probatori delle dichiarazioni favorevoli alla parte che le ha rese.
Manifestamente infondata, inoltre, è la questione di legittimità costituzionale prospettata dal ricorrente nella parte in cui la norma in esame, prevedendo un diverso regime probatorio, determinerebbe una discriminazione tra chi intraprende una procedura in via amministrativa e chi agisce in giudizio (art. 3 Cost.), compromettendo il diritto di difesa (art. 24), non solo perchè, come si è sottolineato, le dichiarazioni vengono sottoposte a vaglio di congruità anche nella prima sede, ma soprattutto perchè non possono compararsi situazioni disomogenee, quali la posizione dell'istante in un procedimento amministrativo, e quella della parte in un giudizio.
Oltre al fatto che l'art. 97 Cost. non può essere invocato riguardo agli istituti giurisdizionali (Corte cost. 11.7.2008, n. 272).
In applicazione di tali principi, le Sezioni unite di questa Corte (Cass. 14.10.1998, n. 10153), seguite da giurisprudenza costante (Cass. 6.4.2001, n. 5142; 14.4.2001, n. 5594; 16.4.2004, n. 7299;
22.6.07, n. 14590), a proposito della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prevista dalla L. 4 gennaio 1968, n. 15, art. 4, hanno affermato che l'attitudine certificativa e probatoria di tale dichiarazione vale, fino a contraria risultanza, nei soli confronti della p.a. ed in determinate attività o procedure amministrative, ma, in difetto di diversa, specifica previsione di legge, nessun valore probatorio, neanche indiziario, può essere ad essa attribuito nel giudizio civile, caratterizzato dal principio dell'onere della prova, atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore, ai fini del soddisfacimento dell'onere di cui all'art. 2697 c.c., da proprie dichiarazioni. La specialità della previsione normativa che ispira la censura del ricorrente, è limitata al procedimento amministrativo, proprio al fine di equiparare la dichiarazione giurata all'atto sostitutivo, previsto dalla L. n. 15 del 1968.
2.2. Il terzo motivo è intestato come violazione di legge, ma nel suo contenuto mira a censurare l'apprezzamento delle risultanze probatorie da parte del giudice, il quale avrebbe attribuito ad H. una pretesa contraria "a quello che plausibilmente doveva essere il contenuto del documento", mentre "avrebbe dovuto valutare il complesso degli elementi che davano conto dell'accordo simulatorio". Nella sintesi finale, poi, articola il quesito sia come falsa applicazione di legge, che come denuncia del vizio di motivazione. Riguardo alla violazione e falsa applicazione della L. n. 98 del 1994, art. 1, comma 3, essa va posta in relazione alla denuncia delle norme in tema di prova della simulazione, giacchè, diversamente, costituirebbe inutile ripetizione delle due censure che precedono.
L'argomentazione del ricorso, tuttavia, non è sul punto univoca, giacchè oscilla tra due possibili impostazioni, rispettivamente riguardanti l'interposizione fittizia e l'interposizione reale di persona, non certo tra loro conciliabili, tanto che nell'esposizione del motivo, si insinua che la fattispecie rientri nell'ipotesi di "simulazione per interposizione reale", mentre al momento finale del quesito, contraddittoriamente, il ricorrente sembra sciogliere nodo verso l'interposizione fittizia, cui orienta il riferimento al "negozio dissimulato".
Perchè delle due l'una: o la compravendita interviene tra due soggetti dei quali uno è reale compratore, rappresentante indiretto di un terzo, cui il primo è obbligato a riversare gli effetti della vendita (ma allora non c'è alcuna simulazione), o alla base del negozio v'è un accordo trilatero, questa volta sì, simulatorio, di modo che gli effetti della vendita si producono direttamente nella sfera del simulato acquirente.
Quale che sia il senso da attribuire all'impugnazione, essa appare inammissibile, giacchè il terzo motivo, che comunque attiene al rilievo attribuito dal giudice alla dichiarazione dello Z. riguardo alla questione della prova della titolarità dei beni immobili da parte dello H., non è assistito dall'allegazione di una decisività della questione proposta. L'eventuale fondatezza, in astratto, del terzo motivo sotto il profilo della violazione di legge, non comporterebbe l'accoglimento del ricorso, se restasse indimostrata l'univocità delle conseguenze riguardo al concreto perseguimento dell'interesse per il quale l'impugnazione è stata proposta.
Ove ci si dolga che dal materiale probatorio il giudice non abbia tratto appropriate conclusioni, la parte non può limitarsi a sindacare la violazione di legge nella valutazione della specifica prova, ma deve dimostrare che l'interpretazione della norma avrebbe potuto avere rilievo decisivo nella valutazione delle prove, proprio in riferimento all'apprezzamento delle prove che il giudice ha operato, dandone conto nella motivazione. Nel ricorso tale ulteriore elemento, pur fatto valere con la parte dell'impugnazione che richiama l'art. 360 c.p.c., n. 5, viene a mancare.
Il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui non ha ritenuto idonea la dichiarazione dello Z., intestatario del bene per averlo acquistato nel 1958 dalla precedente proprietaria A. I., a costituire prova del negozio dissimulato. Va rammentato in proposito che la domanda proposta in giudizio, siccome interpretata dalla Corte d'appello, faceva valere una interposizione fiduciaria di Z. nell'acquisto del bene (dato che H. non poteva comparire nell'atto per ragioni razziali, o perchè era minore, o perchè si trovava in Italia per motivi di studio), cui non seguì, o almeno non ne è stata data prova in giudizio, un negozio di ritrasferimento.
A questa ricostruzione, e alle conseguenze che il giudice di merito vi ha ricondotto, di una mancanza di prova della titolarità nel diritto di proprietà a favore di H.G., il ricorrente, malgrado la contraddittorietà dell'argomentazione, non può eccepire alcunchè. Manca un negozio di ritrasferimento del bene immobile tra fiduciario e fiduciante. La domanda sarebbe, solo per questo, infondata.
Sicchè appare scontato che il ricorrente alla fine assecondi la diversa qualificazione della propria domanda, ritenendo di poterne recuperare la fondatezza attraverso la valorizzazione degli elementi probatori acquisiti in giudizio, in particolare la dichiarazione giurata di Z..
Senonchè l'esercizio del diritto di impugnazione non può prescindere dall'esistenza, in capo a chi se ne avvale, di un interesse che, dovendo essere concreto e attuale e configurandosi come condizione dell'azione, deve desumersi dal raffronto fra il contenuto della sentenza ed il gravame, e, in caso di ricorso per cassazione con cui si censuri la titolarità di un diritto, deve estrinsecarsi secondo il requisito dell'autosufficienza, che impone, tra l'altro, che sia stato fatto specifico riferimento ad un eventuale esito più favorevole mercè l'applicazione dei criteri e della normativa di cui si invochi l'applicazione in sede di legittimità (Cass. 6.10.2005, n. 19510). In particolare, riguardo all'efficacia del materiale probatorio, è necessario che il ricorrente indichi le ragioni del carattere decisivo di un mezzo istruttorio in ordine alla risoluzione della controversia giacchè, per il principio di autosufficienza del ricorso, il controllo della decisività della prova deve essere consentito alla Corte sulla base delle deduzioni contenute nell'atto impugnatorio, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative (Cass. 31.1.2007, n. 2201; 17.11.2009, n. 24221), e riporti altresì il testo della deposizione testimoniale ove si deduca che il giudice non vi ha ricondotto corrette conclusioni (Cass. 24.3.2006, n. 6679).
Il motivo di ricorso che si sta esaminando, attiene ad un'ipotesi alternativa che la Corte d'appello si è posta, interpretando la domanda in un diverso modo, ovvero che l'attore in giudizio abbia voluto far valere un'interposizione fittizia di persona, in virtù della quale l'accordo tra le parti avrebbe simulatamente individuato lo Z. come parte del contratto di compravendita, essendo viceversa acquirente del bene H.. Ed è a tal fine che il ricorrente afferma oggi la rilevanza della dichiarazione giurata dello Z. come prova del negozio dissimulato.
Il P.R., che agisce in nome e per conto di H. G., non ha interesse a tale impugnazione: l'eventuale riconoscimento della fondatezza del proprio assunto riguardo agli effetti della dichiarazione unilaterale del simulato acquirente come controdichiarazione del contratto simulato, non è di per sè elemento concludente ai fini dell'accertamento dell'accordo simulatorio. Nell'interposizione fittizia di persona, inoltre, l'accordo simulatorio coinvolge anche il venditore, il quale, essendogli indifferente l'identità del compratore, è ben consapevole che l'acquirente è diverso da quello che interviene all'atto di compravendita.
Sotto il primo profilo, è pur vero che la controdichiarazione dell'accordo simulatorio non necessariamente deve essere coeva al contratto simulato e provenire da tutte le parti che vi hanno partecipato, essendo unicamente rilevante la provenienza da quella parte che trae vantaggio dall'atto simulato (Cass. 1.10.2003 n. 14590; 30.1.2013, n. 2203). Va osservato tuttavia che nel ricorso in esame non è riportato il testo della dichiarazione Z., che nell'accertamento della Corte d'appello si sa soltanto aver confessato una circostanza a sè sfavorevole, ma che, per contro, nella stessa narrativa della sentenza, risulta aver chiesto in passato per proprio conto l'indennizzo: non è dato sapere in particolare se dalle dichiarazioni di cui il ricorrente vuole avvalersi, lo stesso abbia veramente attestato un accordo fiduciario trilatero, o se l'accordo fosse solo con H. cui avrebbe dovuto ritrasferire il bene, a lui o al figlio minore, o se si trattasse di una rinuncia traslativa a favore dello stesso. E in virtù del principio cui sopra si è fatto riferimento, non avendo adempiuto all'onere di autosufficienza, il ricorrente non ha messo in condizione il giudice di legittimità, di apprezzare la rilevanza della prova.
Sotto il secondo profilo, nulla si allega, da parte del ricorrente che nel processo vorrebbe avvantaggiarsi della dichiarazione unilaterale del simulato acquirente, circa la posizione della venditrice.
E' noto che nel giudizio avente ad oggetto la simulazione relativa di una compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, l'alienante non riveste la qualità di litisconsorte necessario, se nei suoi confronti il contratto sia stato integralmente eseguito, mediante adempimento degli obblighi tipici di trasferimento del bene e di pagamento del prezzo, e non venga dedotto ed allegato l'interesse dello stesso ad essere parte del processo, ovvero la consapevolezza e volontà del venditore di aderire all'accordo simulatorio (Cass. 14.5.2013, n. 11523).
Nella vicenda, niente si sa in ordine alla posizione della venditrice Arcidiacono, nè sotto il profilo di una di lei consapevolezza dell'accordo, nè dell'integrale soddisfazione dei propri diritti, in contrasto con la deduzione correttamente tratta dalla Corte di merito dalla di lei iniziativa del 1972, quella di conseguire lei l'indennizzo per la perdita del bene, che mal si concilia con una trasmissione della proprietà, e a maggior ragione con un accordo sottostante al contratto di compravendita. Posizione che nella specie sarebbe necessario accertare, mancando anche il contratto di compravendita, che ora si assume essere stato simulato.
2.3. Il quarto motivo è anch'esso inammissibile. Ponendosi nella prospettiva di un valore probatorio delle dichiarazioni giurate, alla stregua di altrettante dichiarazioni testimoniali, il ricorrente si duole del malgoverno che il giudice ne ha fatto nel contesto delle risultanze probatorie, non valorizzando a proprio favore tali dichiarazioni.
Sicchè anche in tal caso manca la decisività della censura, nel raffronto fra il contenuto della sentenza ed il gravame. Valgono le considerazioni sopra svolte in ordine all'impossibilità, da parte della Corte di cassazione, di verificare la rilevanza della prova che si dice pretermessa, nella ricostruzione dei fatti contenuta nella sentenza impugnata. E nella sostanza, il motivo mira sostanzialmente a chiamare il giudice di legittimità ad un nuovo apprezzamento dei fatti che attraverso la valorizzazione delle dichiarazioni giurate, approdi ad una ricostruzione più favorevole al ricorrente.
Il vizio di omessa o insufficiente motivazione sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la corte di legittimità non ha il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito (Cass. 17.6.2011, n. 13327).
2.4. Il quinto motivo è in parte infondato, in parte inammissibile.
P.R. assume che almeno riguardo ai beni mobili per la perdita dei quali ha chiesto l'indennizzo in proprio, la prova della titolarità era da ritenere acquisita.
Il motivo è infondato nella parte in cui, censurando la violazione di legge, pretende che alle dichiarazioni giurate si attribuisca valore di prova piena in giudizio. Sulla questione ci si richiama alle considerazioni sopra svolte. La doglianza è inammissibile nella parte in cui censura il vizio di motivazione: pur collocandosi nell'ottica, correttamente esplorata dalla Corte di merito, di una valenza solo indiziaria delle dichiarazioni, in funzione della prova dei beni rivendicati in proprio, il ricorrente si duole che il giudice abbia sminuito l'efficacia probatoria di quelle, a vantaggio di un diverso documento.
L'inammissibilità, attenendo la censura ad un preteso vizio di motivazione, è ravvisabile sotto un duplice profilo: non sono riportate le dichiarazioni giurate nel loro testuale contenuto, onde dar modo al giudice di legittimità di verificare la logicità della motivazione per cui il giudice di merito ha ritenuto assorbente il tenore dell'istanza originariamente avanzata dal P.R., sull'appartenenza dei beni ad una società; inoltre, trattandosi di valutazione del materiale probatorio, la censura mira sostanzialmente a chiamare il giudice di legittimità ad un nuovo apprezzamento dei fatti riguardo ad una ricostruzione che il ricorrente ritiene a sè sfavorevole. Che, come detto poco sopra, non è consentito.
2.4. Alle stesse conclusioni si perviene nell'esame del sesto motivo.
Il giudice di merito, sulla base delle prove offerte, perviene ad un giudizio di infondatezza della domanda di indennizzo per la perdita dei beni confiscati dal Governo dell'ex colonia, per l'incertezza in ordine alla titolarità dei beni.
Il ricorrente assume che "tutti" sono concordi nel riconoscere la titolarità del terreno in capo ad H. e dei macchinari in capo a P.R.. Del resto nessuno ha avanzato pretese sugli stessi beni.
Per contro, la Corte d'appello ha ritenuto l'insufficienza del materiale probatorio offerto. Tanto più che, come già rilevato, sia la venditrice nel 1972 che l'intestatario nel 1985, ebbero a rivendicare i beni immobili per proprio conto. La motivazione del giudice di merito è logica, ed è non è consentito alla Cassazione procedere ad un nuovo apprezzamento dei fatti.
Le ulteriori deduzioni svolte nella parte finale del ricorso non corrispondono a motivi d'impugnazione, costituendo domande da far valere nell'eventuale giudizio di rinvio.
3. Il ricorso va dunque rigettato, con le conseguenze in ordine alle spese, come da dispositivo.


P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, liquidate in Euro 8.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2014

 

 

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